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Fedele al silenzio

Un’anima arancione nel market-place
 

Un articolo di Ameya apparso su Osho Times n 265

 

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Tempo fa

Ricordo un viaggio a Berlino, agli inizi degli anni novanta, di quelli che “sali in auto la sera con amici e ti ritrovi nell’appartamento di non sai chi, che è partito per l’India e ha lasciato le chiavi al vicino di casa per bagnare le piante”. 

Sulla parete di quella stanza una scritta che diceva: “Semplicemente sii”. 

La padrona di casa era andata in India, perché il suo maestro, Osho, aveva lasciato il corpo. Le stanze della nostra ospite invisibile erano piene di foto, riviste, libri e cd; la parola ricorrente che li univa tutti era “meditazione”. 

Curiosando tra vari articoli che riguardavano la Comune di Osho in India, memorizzai frasi, rimaste scolpite dentro come un’eco. Al mio ritorno in Italia cercai immediatamente libri di Osho in libreria. Aprendoli a caso, ogni parola sembrava rivolta proprio a me. 

Sono sempre stata inquieta. Oggi so che una possibile definizione di come mi sentivo all’epoca, poco più che trentenne, era “ricerca spirituale”. Allora sapevo solo di avere sete, anzi fame. Di qualcosa che non si placava mai. E le parole del maestro mi prendevano e placavano quel qualcosa che cercavo. 

La ricerca di quegli anni fu spasmodica. Reiki, cristalli, macrobiotica, rebirthing. Più mi avvicinavo a qualcosa, più il senso mi sfuggiva. Fino a quando, in un seminario di Reiki, la nostra docente ci propose una meditazione. Invece di farci sedere zitti, ci disse di respirare, gridare o esprimerci come volevamo, saltare, stare in silenzio, poi ballare. E mise una musica per scandire i vari passaggi. 

Iniziai a respirare e a seguire le indicazioni, spingendo l’aria fuori dalle narici in maniera caotica e irregolare, e mi venne subito da piangere. Ma continuai, piangendo e saltando fino a quando arrivò il silenzio. 

In quei 15 minuti attraversai un ronzio, o forse erano galassie infinite, fino a che non incontrai un vuoto. Lì mi sentii finalmente a casa. In quello spazio infinito di silenzio, vuoto e buio c’era tutto e nulla. C’era pace e io ero lì e non sentivo bisogno di altro. Solo essere. Assaggiato quello spazio dissi a me stessa: “Ecco, questo”. 

Era la Meditazione Dinamica di Osho.

Presto scoprii che esisteva un centro in Toscana, dove poter esplorare ulteriormente quello spazio. Arrivata in quel meraviglioso incanto, incrociai Prashantam, con cui avrei condiviso 10 anni della mia vita. La mia laurea in lingue e la mia padronanza dell’inglese e del portoghese mi permisero di lavorare con lui come traduttrice e assistente nei gruppi di terapia. Lì incontrai me stessa, Ameya, attraverso la meditazione. 

In seguito, per una di quelle “cose” che oggi definirei sincronicità, conobbi Videha, che si occupa dei libri di Osho in italiano. Mi propose di tradurre in italiano uno dei testi che raccontano i primi campi di meditazione che Osho, allora Bhagwan, teneva agli ancora pochi discepoli che lo seguivano. Forse non a caso fu pubblicato in italiano col titolo La meditazione passo dopo passo. 

Credo sia stato l’unico libro di Osho che ho letto per intero. 

Traducevo in una specie di trance. Non ricordo nulla di quell’anno al computer, mi sentivo solo un mezzo, grazie alla mia conoscenza dell’inglese. “Io” non c’ero, c’era un silenzio dentro di me. E un senso di totale non attaccamento a ciò che stavo facendo. 

Credo di aver appreso in quel periodo ciò che mi permette di svolgere il mio lavoro con le persone oggi. Una postura interiore di possibilità, apertura e un tempo del lasciar accadere, come se dentro di me non ci fosse nessuno. E in questo non esserci nessuno c’è tutto. E una grande libertà.

 

 

Dopo un po’

Dopo alcuni anni sentii il bisogno di dare una veste e una struttura a tutta la mia ricerca spirituale per poterla portare nel mondo, nel marketplace, il mercato, come lo chiama Osho. 

In qualità di insegnante d’inglese nella scuola pubblica, già portavo in classe, senza spiegare nulla, tutto quello che scoprivo man mano della meditazione. La integravo a ogni lezione, senza definirla, semplicemente così, come la prima frase di Osho che avevo letto su quella parete: “Semplicemente sii”. 

Mi iscrissi alla facoltà di psicologia quasi per gioco. 

Integravo ciò che imparavo con ciò che sentivo attraverso Osho.

Studiare è sempre stato facile per me e così il mio percorso universitario si concluse rapidamente e in maniera efficace: potevo esercitare la professione di psicologa e iniziare a lavorare con le persone. 

Un tema che ho sempre sentito mio, per storia personale, è la dipendenza affettiva, che iniziai ad approfondire, sviscerare, scomporre e ricomporre. Diventai così una psicologa esperta di relazioni. Aprii una pagina Facebook e un blog dal titolo Di troppo amore, che amore non è, ma bisogno cieco e inappagato che ci mantiene infantili e pieni di pretese nei confronti dell’altro. 

Contemporaneamente, in quegli an­ni, arrivò anche la possibilità di svolgere un dottorato, in parte all’estero, dove potei incontrare il mondo della ricerca accademica. Svolsi una ricerca su Flow ed emozioni. In un mio soggiorno in Inghilterra presso la Facoltà di psicologia dell’università di Exeter, un grande accademico mi incoraggiò con parole che mi sembrarono conosciute: “Ameya, porta quello che sei nella ricerca”. 

Solo più tardi scoprii che anche lui proveniva dal mondo della meditazione e a un convegno in Inghilterra mi presentò un altro emerito e affermato ricercatore, studioso della creatività. 

I convegni accademici sono caratterizzati da una formalità e un’etichetta molto rigide, ma tra strette di mano e saluti composti, il ricercatore creativo e io ci guardammo negli occhi e… ci siamo riconosciuti, come due complici. Incuriosito dal mio nome, mi chiese da dove venisse “Ameya”. Provai a glissare, non mi sembrava la sede per parlare di nomi spirituali e maestri. Lui invece incalzava, insistendo e fissandomi negli occhi, fino a quando scoppiammo a ridere insieme. In mez­zo a decine e decine di luminari accademici lui mi sussurrò: “Scommetto che la tua biancheria intima è arancione, lo so!”. Divertiti di indossare un’orange soul in quel congresso, eravamo come due clandestini a bordo. 

Guardando le sue slides durante la sua impeccabile presentazione da esperto relatore, riconobbi immediatamente Osho in ogni passaggio della sua applaudita conferenza internazionale, sebbene non lo nominasse mai. Lo ringraziai e dentro di me sapevo che non lo avrei mai più incontrato, ma sentivo di voler essere proprio come lui, fedele in silenzio al mondo di quelli che prima ballano scatenati, poi si abbracciano e si siedono a guardarsi dentro. Sapevo di essere lì tra tutti quelli eruditi, guidata da altro, dagli insegnamenti di Osho, per mescolare i linguaggi e unirli. 

 

 

Oggi

Vivo in un piccolo paese sull’Appennino in provincia di Reggio Emilia. 

Non insegno più e mi dedico a tempo pieno alla mia attività di psicologa delle relazioni. Ho approfondito nel tempo varie tecniche terapeutiche tra cui le principali terapie psicologiche, che accompagno con la meditazione. 

Seguo i pazienti sia in studio che online in Italia e all’estero. 

Nei miei workshop, così come nelle sedute, mi lascio guidare dai preziosi insegnamenti di Osho. In realtà non faccio molto, cerco di portare avanti quell’invito che io stessa ho ricevuto quel giorno in quell’appartamento a Berlino: semplicemente sii. Funziona.

Ho imparato a usare poco le parole; il mio lavoro consiste principalmente in un ascolto e parlo molto poco di me, del mio percorso. Ritengo che il rapporto con un maestro spirituale sia molto intimo. Osho ha molte sfumature. Una è la consapevolezza. Un’altra è il silenzio. Un’altra ancora è la celebrazione. 

Porto con me nel mondo ciò che ho sentito e appreso da lui: se non siamo disposti ad attraversare tutti i nostri condizionamenti, a sciogliere quella trance ipnotica che ci porta a ripetere, per fedeltà, un copione familiare, non saremo liberi di provare amore per noi stessi, tanto meno per l’altro a cui ci aggrapperemo come a una stampella. 

Ho nel cuore un’immensa gratitudine che ricordo ogni giorno a me stessa. La meditazione è parte essenziale nel mio lavoro, non potrei condividere la mia esperienza e portare avanti il mio lavoro giorno per giorno se non in uno stato di meditazione. Una delle mie tesi all’università l’ho fatta proprio sulla meditazione che ora è di moda chiamare “mindfulness”. Facendo ricerca in ambito accademico ho scoperto che un sacco di cose che già sappiamo hanno bisogno soltanto di un nome nuovo per poter essere incluse nel collettivo. Ecco io questo faccio, accompagno le persone a scoprire ciò che già sanno, a trovare ciò che già hanno, senza saperlo.

 

Per maggiori informazioni sul lavoro di Ameya: www.ditroppoamore.it

Ameya

AMEYA 
che sarà presente all’OshoFestival di Bellaria in ottobre con due workshop